Partiamo da una considerazione precongressuale e postelettorale: il nostro VII Congresso, peraltro previsto come da scadenze statutarie, dopo la sconfitta nelle urne assume un sapore diverso da quello che avrebbe avuto se in Parlamento ci fossero ancora le sinistre e i comunisti. Quanto è inserita la discussione sul dopo-voto nel dibattito dentro il PRC?
C'è molto formalismo nelle riflessioni proposte sulla nostra sconfitta elettorale. La tesi proposta particolarmente nelle mozioni 1 e 2 è che siamo stati sconfitti fondamentalmente dall'involuzione sociale e culturale, una spiegazione che non rende conto delle nostre responsabilità politiche. Il popolo non ci vota? È colpa del popolo... Se questo è il ragionamento, le autocritiche altisonanti servono a poco e nulla. A nostro avviso una riflessione seria sulla nostra sconfitta elettorale deve necessariamente partire da noi, da quello che abbiamo fatto in questi tre anni seguiti al congresso di Venezia. Il 9 giugno 2007 si è manifestata la nostra rottura con il movimento contro la guerra; il 23 luglio la rottura, decisiva, con i lavoratori. Prima e dopo quelle due date decisive, una grandinata di bocconi amari, con il partito sistematicamente collocato nel posto sbagliato, a difendere un governo indifendibile. È questo che ha dato alla sconfitta il suo carattere devastante: si può perdere dopo aver combattuto, in quel caso si perde forza, ma perlomeno si mantiene il senso della propria battaglia. Qui invece non c'è stata una sconfitta sul campo, ma l'abbandono da parte del partito del terreno di scontro, l'essersi collocati sulla barricata sbagliata. Se non si parte a discutere da qui, saremo condannati a ripetere gli stessi errori. È poi tragicomico sentire dire che "non avevamo capito" che nell'Unione comandavano Confindustria e Padoa Schioppa, che "non avevamo capito" la forza dell'avversario. Un gruppo dirigente responsabile di un disastro del genere deve solo andare a casa.
In queste settimane il tema centrale su cui si è focalizzata l'attenzione della cosidetta "opinione pubblica", ben manovrata dal governo e dai mezzi di informazione, è la sicurezza: ma non quella sui posti di lavoro. Bensì la tensione securitaria che viene alimentata dalle fobie per gli stranieri, per i diversi. A Roma un giornalista di Radio Deegay è stato picchiato e gli è stato intimato di non trasmettere più. Nel quartiere del Pigneto una ventina di neonazisti ha assaltato negozi gestiti da bengalesi e da indiani. Le ronde padane pullulano dal Nord Ovest alle più remote città della Penisola. Senza parlare dell'aggressione alla Sapienza. Rifondazione Comunista ha gli strumenti per arginare questo clima di recrudescenza violenta e di intolleranza?
Il dilagare del razzismo, dei pregiudizi, del peggiore individualismo, è una parte non secondaria della sconfitta di questi anni. Se il movimento operaio viene rinchiuso nelle gabbie concertative, se i lavoratori vengono imbavagliati dai loro stessi dirigenti, si aprono spazi preoccupanti per la peggiore demagogia di destra. Peraltro questa offensiva ideologica e culturale non nasce dal nulla, è il contorno necessario per l'attacco sul piano sociale che viene da Confindustria e dalla destra al governo. Solidarietà, uguaglianza, unità, diritti, sono parole credibili solo se vengono da una sinistra che dimostra ogni giorno di essere coerente e intransigente nella difesa dei diritti dei lavoratori, pronta a lottare in prima fila anche nelle condizioni più avverse, altrimenti vengono viste come ipocrisia buona per i salotti progressisti, ma priva di contenuto per chi vede ogni giorno peggiorare la propria condizione sociale. La solidarietà che dobbiamo suscitare non può essere quella di chi, avendo la pancia piena, a fine pasto lascia un boccone a chi vive peggio. Deve essere la solidarietà fra chi lotta per i propri diritti e attraverso quella lotta comprende appieno la necessità dell'unità fra tutti gli opppressi come condizione indispensabile per condurre la propria battaglia. La battaglia antifascista e antirazzista deve diventare parte integrante della nostra piattaforma sociale, la risposta deve venire non solo dal nostro partito, ma innanzitutto da coloro che subiscono la discriminazione. Gli immigrati sono ormai parte fondamentale della classe operaia anche in Italia e sono convinto che saranno proprio il loro protagonismo e le loro lotte a rompere le barriere e ad indicare anche a noi la strada da intraprendere. Dobbiamo fare di tutto per favorire questo percorso.
C'è un'altra emergenza che viene invece sistematicamente trascurata, salvo qualche intervento sporadico quando ci scappa la tragedia: è la sicurezza sul lavoro. Non è forse questo il vero problema sicurezza nel nostro paese?
La sicurezza e la salute sul lavoro sono un risultato diretto dei rapporti di forza in fabbrica e nella società. Leggi, ispezioni, normative hanno senso solo se le inseriamo in questa prospettiva. Solo un lavoratore che abbia dei diritti certi, un salario decente, che non subisca la concorrenza al ribasso di chi è precario, in nero, o comunque ricattabile, può contrapporsi alle situazioni di pericolo sul lavoro. Poi ci sono i punti specifici: le leggi più recenti sull'orario di lavoro minano profondamente la sicurezza, ormai si sfonda in tutte le direzioni: orario giornaliero, settimanale, lavoro festivo, straordinari, riposo fra un turno e l'altro; così come è decisivo il dilagare di subappalti e di esternalizzazioni sia nel pubblico che nel privato. Dobbiamo partire facendo nostra una delle rivendicazioni emerse dalla lotta dei portuali di Genova (e non solo) dopo la morte di un loro compagno di lavoro: rappresentanti alla sicurezza eletti da tutti i lavoratori di un sito produttivo, a prescindere da quale sia l'impresa che li impiega, delegati che abbiano il diritto di ispezionare anche senza preavviso l'ambiente lavorativo e, in caso di pericolo, di interrompere la produzione.
Torniamo al VII Congresso di Rifondazione Comunista: da una parte si avanza la proposta della "Costituente della sinistra" e dall'altra quella della "Costiente dei comunisti". È un bisogno di unità o una ricerca forzata di assemblaggio di culture simili che portino ad una semplificazione del quadro politico nel frammentato mondo della sinistra italiana? In mezzo alle "costituenti" c'è posto per una posizione unitaria e radicale allo stesso tempo: un rafforzamento dell'esistente per una prospettiva unitaria della sinistra che rispetti le singole identità?
Le due domande sono strettamente legate. Ritengo che le due proposte di "costituente", sia pure diverse fra loro, rappresentino un errore gravissimo. Entrambe si propongono di "smontare" il Prc e prenderne qualche pezzo da assemblare con altri spezzoni per fare un altro partito. Sono quindi proposte demolitorie del Prc stesso. La costituente della sinistra è la più pericolosa, di fatto sarebbe una scissione a destra dal Prc per unirsi a Sinistra democratica e ad altri settori, peraltro assai ristretti, fortemente condizionati dal Partito democratico. La "costituente comunista" implica una sorta di allargamento del Pdci, senza alcuna riflessione sulle posizioni ultragoverniste che hanno caratterizzato il gruppo dirigente di quel partito in questi 10 anni. Peraltro ritengo a dir poco ambiguo il fatto che i compagni dell'Ernesto (mozione 3) dicano che la loro mozione non propone di aderire all'appello dell'"unità comunista" quando poi girano l'Italia assieme a Diliberto facendo iniziative a sostegno di quell'appello... Il primo requisito di un dibattito serio dovrebbe essere la coerenza. Il problema dell'unità a sinistra, che peraltro non riguarda solo le forze del defunto Arcobaleno, ma anche altre forze di sinsitra, comprese quelle che si sono scisse dal Prc, può essere posto solo in termini di unità d'azione, con un dibattito trasparente e democratico su piattaforme e battaglie comuni, il cui scopo non sia quello di salvare la faccia o la poltrona a dei dirigenti screditati, ma quelli di creare la mobilitazione più ampia e forte possibile contro la destra. Se in futuro questo approccio si intersecherà con una ripresa dei movimenti di lotta, allora sì che potrebbero aprirsi scenari credibili di unità sulla base di posizioni realmente antagoniste che seppelliscano una volta per tutte il governismo e il moderatismo che ci hanno portati fin qui. Ferrero nei mesi scorsi ha citato, secondo me del tutto a sproposito, il "modello Flm". Ma l'Flm rappresentava la spinta unitaria che salendo dalle fabbriche e dalle lotte degli anni '70 metteva in crisi i gruppi dirigenti e le burocrazie, che non a caso spesso la osteggiarono e lavorarono per depotenziarla. Quello che abbiamo avuto finora e che ancora ci si ripropone in varie forme (costituenti, "federazione", rilancio della Sinistra europea) è stato l'esatto contrario, ossia l'unità dei gruppi dirigenti alle spalle della base e contro le spinte più radicali e combattive. Il primo modello di unità è fertile e da perseguire, il secondo è distruttivo e moderato.
Secondo la posizione che qui rappresenti sono da escludere rapporti con il Partito Democratico o un dialogo su determinate tematiche è ancora possibile? E se sì, a che livello?
Il Partito democratico è un'espressione diretta del grande capitale e sarebbe ora che lo capissero tutti. Sulla politica economica sono più liberisti della destra, sui diritti inseguono le peggiori spinte xenofobe (quando non sono loro stessi a scatenare le campagne razziste, si vedano i sindaci del Pd). Chi parla di dialogo col Pd dovrebbe indicare un solo terreno sul quale questo sia possibile. Chi sogna che nel Pd possa nascere una "sinistra" con la quale fare fronte vive in un altro pianeta. Dobbiamo tagliare definitivamente questo guinzaglio, il che significa rompere anche nelle amministrazioni locali dove continuamo a subire le stesse politiche che abbiamo subìto col governo Prodi. Solo così potremo recuperare una effettiva autonomia politica, altrimenti saremo sempre un satellite del Pd, destinati a spaccarci e a entrare in crisi ogni volta che si pone il problema del "voto utile" o del "fermare la destra", che peraltro come si è ampiamente dimostrato non solo non viene arginata dalle alleanze come l'Unione, ma se ne avvantaggia per poi ripresentarsi più prepotente e arrogante che mai.
Puoi rivolgere un invito al voto per la tua mozione cercando di esprimere, al comtempo, una sintesi estrema della medesima?
Inviti al voto non ne faccio, questa non è una campagna elettorale né una televendita! Dico solo che il congresso deve essere dei compagni nei circoli, non è il congresso delle interviste, dei servizi televisivi o delle paginate di inserzioni a pagamento sui giornali. L'importante è che i compagni decidano in base agli argomenti politici proposti e valutando ciò le diverse aree hanno saputo esprimere sia nel dibattito che nell'intervento nella società, senza farsi condizionare da logiche d'immagine o da "fedeltà" dovute a questo o quel dirigente. La nostra area propone una "svolta operaia" del partito, intendiamo dire che il Prc può vivere e rinnovarsi solo se si ricostruisce come partito dei lavoratori, espressione dei loro bisogni, delle loro lotte, immerso fino in fondo nella classe operaia e fra gli sfruttati. La nostra ambizione non è solo che questa posizione prenda dei voti, ma soprattutto che su questa impostazione si apra un dialogo fecondo e un lavoro comune con tutti quei compagni, che ci votino o meno, che come noi sentono che questa crisi drammatica può anche essere salutare se ci porta davvero a un cambiamento di rotta.
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