Scritto da Roberto Sarti (Cpf Milano) - Liberazione, 5 giugno 2008
Il dibattito congressuale ruota attorno ad un leit motiv, bisogna salvare Rifondazione comunista. Ma come? A questa domanda, vista come decisiva, e giustamente da tanti militanti, si offrono le risposte più svariate. C’è chi, fra gli altri, propone che la salvezza debba passare, in maniera un po’ bizzarra, attraverso la sua liquidazione, e chi suggerisce un “ritorno alle origini” cioè alla rifondazione del 1991. Ritorno alle origini? Se parliamo dell’entusiasmo con cui decine di migliaia di lavoratori e giovani hanno cercato di costruire Rifondazione Comunista in quei primi anni, non potremmo che sottoscrivere questo proposito. Ma quando si parla della “piattaforma politica” e della “prospettiva strategica” che caratterizzava il Prc dei primi anni novanta, pensiamo che si commetta un grosso errore richiamandosi a tale modello. Il disastro di questi ultimi due anni di governo è infatti legato alla linea politica portata avanti fin dalla nascita del nostro partito. Il gruppo dirigente di oggi non ha mai operato una vera revisione critica della prospettiva strategica di allora, in primo luogo la questione del rapporto dei comunisti con i governi della borghesia. Nei primi anni della sua esistenza il Prc si oppose alle politiche di lacrime e sangue portate avanti da Ciampi ed Amato, disse no alla cancellazione della scala mobile ed alla controriforma delle pensioni attuata dal Governo Dini. Su questa base, riuscì ad attirare numerosi militanti e a raggiungere il suo massimo storico, nelle elezioni politiche del 1996, con oltre tre milioni di voti e l’8,6%. Era quello, soprattutto tra il 1994 e il 1996, il “periodo d’oro” del nostro partito, in termini di consenso e visibilità nella società. Ma questi successi furono di breve durata: ogni volta infatti che la classe dominante, attraverso la sua componente “democratica e progressista” esercitava le proprie pressioni sul Prc, una parte o l’intero gruppo dirigente fu pronto a piegarsi. Il 1995 è il momento della prima crisi, quando un gruppo di quindici deputati e senatori decise di votare la fiducia al governo Dini, sostenuto da una maggioranza trasversale formata anche da Lega, Ppi e Pds. Questo gruppo, guidato dal primo segretario del Prc, Garavini, formerà il Movimento dei comunisti unitari, che entrerà poi nei Ds. Decisamente più grave l’esperienza dell’appoggio esterno al primo governo Prodi, durata ben due anni, dal 1996 al 1998. Allora si giustificava l’alleanza elettorale col centrosinistra con argomenti molto simili a quelli che abbiamo sentito in questi ultimi due anni. Bisogna “fermare le destre”, “non volete mica che torni Berlusconi?”,”bisogna difendere la democrazia”.e così via. Per due anni fummo totalmente sottomessi alle politiche filopadronali di quell’esecutivo (finanziarie pesantissime per entrare nell’euro, privatizzazioni, pacchetto Treu, ecc.), fino alla rottura con Prodi avvenuta nell’ottobre del 1998. Rottura che mise a rischio l’esistenza del Prc, a causa della scissione capitanata questa volta da Cossutta e Diliberto, che diede vita al Partito dei Comunisti Italiani. L’illusione era di poter “condizionare” il governo di Romano Prodi, attraverso un “compromesso sociale dinamico” fra le classi, come ci spiegavano Bertinotti e Cossutta. L’errore stava proprio nel credere che attraverso un’alleanza con la borghesia “progressista” ed i suoi partiti si potesse avviare una stagione di riforme. Non si capiva che una politica riformista non è possibile, in questa fase storica, se non rompendo con la logica delle compatibilità capitaliste. Non a caso dagli anni ottanta in poi ogni governo, fosse di destra, di centro o di sinistra in Europa, ha adottato le stesse politiche di tagli e privatizzazioni. Per salvare il nostro partito bisogna rompere con ogni ipotesi di collaborazione a livello nazionale e locale, con quei partiti legati a doppio filo agli interessi padronali, nel caso concreto il Partito Democratico. Questa riflessione tuttavia è quanto mai lontana dalle posizioni di una forza come il Pdci, che ha fatto del “governo sempre e comunque” uno dei tratti fondamentali della propria ragion d’essere. Allo stesso modo nessuna delle mozioni congressuali, a parte la nostra, trae le conclusioni necessarie dall’esperienza di questi 17 anni di vita di Rifondazione. L’indipendenza di classe deve essere un tratto essenziale della politica dei comunisti. Solo partendo da una svolta profonda di strategia, da una “svolta operaia”, si potrà ricostruire Rifondazione comunista e avanzare una proposta di unità con tutti coloro che si richiamano al comunismo e alla lotta al capitalismo. Se vogliamo parlare di “ritorno alle origini” e di “unità comunista”, rivisitiamo il pensiero di Marx, Lenin e Gramsci, che dedicarono tutta la loro vita alla lotta contro il riformismo ed alla necessità di unire i lavoratori nella prospettiva della rottura rivoluzionaria verso una società non governata dal profitto.
Il dibattito congressuale ruota attorno ad un leit motiv, bisogna salvare Rifondazione comunista. Ma come? A questa domanda, vista come decisiva, e giustamente da tanti militanti, si offrono le risposte più svariate. C’è chi, fra gli altri, propone che la salvezza debba passare, in maniera un po’ bizzarra, attraverso la sua liquidazione, e chi suggerisce un “ritorno alle origini” cioè alla rifondazione del 1991. Ritorno alle origini? Se parliamo dell’entusiasmo con cui decine di migliaia di lavoratori e giovani hanno cercato di costruire Rifondazione Comunista in quei primi anni, non potremmo che sottoscrivere questo proposito. Ma quando si parla della “piattaforma politica” e della “prospettiva strategica” che caratterizzava il Prc dei primi anni novanta, pensiamo che si commetta un grosso errore richiamandosi a tale modello. Il disastro di questi ultimi due anni di governo è infatti legato alla linea politica portata avanti fin dalla nascita del nostro partito. Il gruppo dirigente di oggi non ha mai operato una vera revisione critica della prospettiva strategica di allora, in primo luogo la questione del rapporto dei comunisti con i governi della borghesia. Nei primi anni della sua esistenza il Prc si oppose alle politiche di lacrime e sangue portate avanti da Ciampi ed Amato, disse no alla cancellazione della scala mobile ed alla controriforma delle pensioni attuata dal Governo Dini. Su questa base, riuscì ad attirare numerosi militanti e a raggiungere il suo massimo storico, nelle elezioni politiche del 1996, con oltre tre milioni di voti e l’8,6%. Era quello, soprattutto tra il 1994 e il 1996, il “periodo d’oro” del nostro partito, in termini di consenso e visibilità nella società. Ma questi successi furono di breve durata: ogni volta infatti che la classe dominante, attraverso la sua componente “democratica e progressista” esercitava le proprie pressioni sul Prc, una parte o l’intero gruppo dirigente fu pronto a piegarsi. Il 1995 è il momento della prima crisi, quando un gruppo di quindici deputati e senatori decise di votare la fiducia al governo Dini, sostenuto da una maggioranza trasversale formata anche da Lega, Ppi e Pds. Questo gruppo, guidato dal primo segretario del Prc, Garavini, formerà il Movimento dei comunisti unitari, che entrerà poi nei Ds. Decisamente più grave l’esperienza dell’appoggio esterno al primo governo Prodi, durata ben due anni, dal 1996 al 1998. Allora si giustificava l’alleanza elettorale col centrosinistra con argomenti molto simili a quelli che abbiamo sentito in questi ultimi due anni. Bisogna “fermare le destre”, “non volete mica che torni Berlusconi?”,”bisogna difendere la democrazia”.e così via. Per due anni fummo totalmente sottomessi alle politiche filopadronali di quell’esecutivo (finanziarie pesantissime per entrare nell’euro, privatizzazioni, pacchetto Treu, ecc.), fino alla rottura con Prodi avvenuta nell’ottobre del 1998. Rottura che mise a rischio l’esistenza del Prc, a causa della scissione capitanata questa volta da Cossutta e Diliberto, che diede vita al Partito dei Comunisti Italiani. L’illusione era di poter “condizionare” il governo di Romano Prodi, attraverso un “compromesso sociale dinamico” fra le classi, come ci spiegavano Bertinotti e Cossutta. L’errore stava proprio nel credere che attraverso un’alleanza con la borghesia “progressista” ed i suoi partiti si potesse avviare una stagione di riforme. Non si capiva che una politica riformista non è possibile, in questa fase storica, se non rompendo con la logica delle compatibilità capitaliste. Non a caso dagli anni ottanta in poi ogni governo, fosse di destra, di centro o di sinistra in Europa, ha adottato le stesse politiche di tagli e privatizzazioni. Per salvare il nostro partito bisogna rompere con ogni ipotesi di collaborazione a livello nazionale e locale, con quei partiti legati a doppio filo agli interessi padronali, nel caso concreto il Partito Democratico. Questa riflessione tuttavia è quanto mai lontana dalle posizioni di una forza come il Pdci, che ha fatto del “governo sempre e comunque” uno dei tratti fondamentali della propria ragion d’essere. Allo stesso modo nessuna delle mozioni congressuali, a parte la nostra, trae le conclusioni necessarie dall’esperienza di questi 17 anni di vita di Rifondazione. L’indipendenza di classe deve essere un tratto essenziale della politica dei comunisti. Solo partendo da una svolta profonda di strategia, da una “svolta operaia”, si potrà ricostruire Rifondazione comunista e avanzare una proposta di unità con tutti coloro che si richiamano al comunismo e alla lotta al capitalismo. Se vogliamo parlare di “ritorno alle origini” e di “unità comunista”, rivisitiamo il pensiero di Marx, Lenin e Gramsci, che dedicarono tutta la loro vita alla lotta contro il riformismo ed alla necessità di unire i lavoratori nella prospettiva della rottura rivoluzionaria verso una società non governata dal profitto.